GE. DA. sas di Giancarlo Chillè & C.
Gestione Elaborazione Dati Aziendali
I licenziamenti e il rito speciale
Dipendenti delle amministrazioni pubbliche soggette al D.Lgs. n. 165/2001
Un ritorno all’antico: una nuova divaricazione tra impiego pubblico e impiego privato
In corso d’opera il nostro legislatore ha dovuto fare i conti con un dato che gli era inizialmente sfuggito, cioè l’essere l’ambito del suo progetto potenzialmente estendibile al settore dell’impiego pubblico “privatizzato”, fortemente politicizzato e sindacalizzato. Non poteva mancare un unanime e fermo rigetto da parte dell’intero movimento confederale, chiuso a difesa di quello divenuto ormai il suo territorio elettivo di radicamento, con il “posto fisso” ad autentico punto di forza. Il che sarebbe sufficiente a stoppare un Governo, cui bastava far vedere all’Europa di essere capace di riformare il settore privato, peraltro, con il mirabile risultato di tenere fuori proprio il settore pubblico di gran lunga più sofferente.
Segno evidente dell’incerto e disagevole procedere è quel paio di commi, il 7 e l’8, che si fa carico di scorporare e rinviare ad altra sede la estensione della riforma dell’impiego pubblico “privatizzato”. Il comma 7 non sembra escluderla, ma solo ridimensionarla, con l’affermare che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da essere non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, col far ritenere una sua utilizzabilità da parte della giurisprudenza in sede di analogia iuris e di interpretazione del D.Lgs. n. 165/2001.
Ma il comma 8 fa capire che quel che si ha in mente non è un’estensione della riforma, ma una sua riformulazione ad hoc, secondo l’ormai prevalente tendenza a dividere quanto l’intero processo di privatizzazione culminato nel T.U. d’inizio secolo aveva cercato se non di unire, di ravvicinare, impiego pubblico e privato. Così quel comma puntualizza che proprio ai fini del precedente comma 7, il Ministro “sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative… individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti , le modalità e i tempi dell’armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.”.
Pertanto, il Ministro dovrebbe farsi carico “anche di iniziative legislative” per un’opera di “armonizzazione”. Opera che non intenderebbe fare, stante il Protocollo d’intesa sul lavoro pubblico concluso con Cgil, Cisl e Uil, inteso a smussare la riforma Brunetta rendendola più accetta alle organizzazioni sindacali.
Si prefigura un’ulteriore messa a punto di una pubblica amministrazione, che dovrebbe cogliere nell’inevitabile riduzione una occasione per una profonda riorganizzazione, secondo una sorta di scambio fra “comprensione sindacale per l’incombente stretta finanziaria e apertura governativa verso una maggiore partecipazione collettiva. La prevista attività normativa e contrattuale dovrebbe muoversi nella prospettiva di un nuovo modello di relazioni sindacali, con un pieno recupero dell’intervento del sindacato, tramite il suo coinvolgimento nei processi di razionalizzazione delle pubbliche amministrazioni (ad esempio spending review) ed in tutte le fasi dei processi di mobilità collettiva, nonché nell’ambito delle materie di informazione sindacale anche di ipotesi di esame congiunto. A fare da contorno c’è una chiara soluzione di continuità in materia di valutazione della performance, con una rivalorizzazione della organizzativa rispetto all’individuale; mentre ritorna la solita cantilena in materia di accresciuta responsabilità ed autonomia della dirigenza, che contrasta con la previsione di una maggiore partecipazione sindacale nella gestione.
Ma la parte più ghiotta è certo costituita da una legge sull’utilizzazione delle tipologie di lavoro flessibile, dove spicca la chiamata fuori dalla riscrittura dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, qui passibile di applicazione generalizzata, a prescindere dalla dimensione dell’unità amministrativa e dall’appartenenza alla dirigenza. Nell’elencazione delle problematiche da affrontare, c’è una lettera f), che si limita a prevedere un riordino della disciplina dei licenziamenti per motivi disciplinari fermo restando le competenze attribuite alla contrattazione collettiva nazionale, peraltro seguita a ruota da una lettera m), che si fa carico di contemplare un rafforzamento dei doveri disciplinari dei dipendenti ma prevedendo al contempo garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo.
In claris non fit interpretatio. Lo stesso Ministro, mentre cercava di mettere a punto la bozza di legge delega prevista in chiusura del Protocollo d’intesa, partecipava alla redazione del D.L. n. 95/2012, primo atto di una spending review che incide pesantemente sull’impiego pubblico, decisa ed attuata senza alcun sostanziale coinvolgimento sindacale, con punto di forza una riduzione del personale dirigenziale del 20% e non dirigenziale del 10%, cui dovrebbe servire la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nei confronti dei dipendenti che, in base alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 201/2011, avrebbero ottenuto la decorrenza del trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2014, con la possibilità di contare sulla vigente procedura di mobilità, con l’80% dello stipendio garantito fino al raggiungimento della data di uscita. Non solo, perché ad ulteriore smentita del Protocollo d’intesa, viene resa obbligatoria l’adozione della valutazione organizzativa e individuale, cioè né più né meno una pagella fatta e ritagliata a misura delle performances dei singoli dipendenti.
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